Tortura. La Cina e la tutela dei diritti civili

Pubblichiamo di seguito con molto piacere l’articolo redatto da Claire Moretti, una delle vincitrici del Premio di laurea Acat contro tortura e pena di morte di quest’anno, autrice della tesi dal titolo: “La Cina e la tutela dei diritti civili: il caso della tortura”
Nel 2010, con la pubblicazione del primo National Human Rights Action Plan (2010-2012), la Cina ha dichiarato di accettare il principio di universalità dei diritti umani e di riconoscere ufficialmente l’importanza dei diritti civili e politici. Nonostante l’importanza di questo gesto, sopratutto da un punto di vista simbolico, la protezione fornita ai diritti enunciati dal Piano rimane piuttosto superficiale e limitata. Concretamente questo è causato dalla presenza, nella normativa interna, di definizioni più vaghe di tali diritti e dall’inclusione di numerose “eccezioni” che consentono di derogarvi.
 
Lo stesso discorso è applicabile alla ratifica da parte della Cina degli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani. In questo contesto, la ratifica cinese della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ha avuto un impatto positivo sull’ordinamento cinese da un punto di vista normativo, favorendo l’adozione di leggi, emendamenti e regolamenti per implementare gli obblighi previsti dalla Convenzione. Nonostante questi progressi, le norme cinesi presentano delle lacune evidenti e le violazioni dei diritti garantiti dalla Convenzione rimangono persistenti.
 
Se da una parte il governo ha rafforzato la proibizione di tortura da un punto di vista normativo ed ha inserito sanzioni previste per gli abusi, è comunque mancata l’elaborazione di una definizione interna di tortura che fosse conforme alla definizione pattizia, col risultato di restringere sotto vari aspetti la portata di tale definizione. Inoltre, come per la protezione di altri diritti civili, la “non assolutezza” della definizione rappresenta una grossa lacuna. In pratica questo significa che tali diritti possono essere legalmente limitati per il mantenimento dell’ordine e della stabilità, col fine ultimo di garantire condizioni favorevoli allo sviluppo economico. Inoltre, gli organi di polizia locale lavorano con un ampio margine di indipendenza dalle autorità centrali, seguendo il principio per cui “il fine giustifichi i mezzi” e rendendo accettabili in determinate circostanze (per esempio per ottenere una confessione), l’utilizzo di pratiche vietate dalla legge. 
 
Spesso queste violazioni si verificano nel contesto della detenzione amministrativa, una sanzione arbitraria che può essere imposta senza un processo e per la quale non è prevista alcuna possibilità di ricorso. Ne sono un esempio i programmi di rieducazione attraverso il lavoro (laojiao), dove sono stati frequenamente documentati trattamenti definibili “crudeli, inumani e degradanti”. Anche tra i programmi di lavoro che accompagnano la detenzione penale (laogai), attribuita con una sentenza, vengono regolarmente riscontrati casi di abusi fisici e mentali che rientrano nella definizione di tortura enunciata dalla Convenzione contro la tortura. 
 
Un altro elemento di debolezza consiste nel fatto che i funzionari di stato vengano giudicati dalla Procura Suprema del Popolo, che risponde della propria attività di fronte all’Assemblea Nazionale del Popolo e quindi agisce sotto il controllo del Partito Comunista Cinese. L’assenza di un’autorità indipendente fa sì che la giustizia sia asservita alle politiche del Partito. Questo è reso evidente dal fatto che raramente sono state svolte inchieste per casi di tortura le cui vittime erano individui appartenenti a determinati gruppi politici, etnici o religiosi, come gli Uighuri, i tibetani, i membri del Falun Gong, gli attivisti democratici e gli attivisti dei diritti umani, avversati dal governo e quindi ritenuti “elementi pericolosi” e “antisociali”.
 
Claire MORETTI