Marocco: Condanne per confessioni rese sotto tortura
Sotto occupazione marocchina il Sahara occidentale è regolarmente teatro di violente repressioni dei manifestanti sahraui per la libertà. Il Comitato contro la tortura ha preso una storica decisione condannando per la prima volta il Marocco per le violazioni commesse. Il 16 febbraio 2013 Naâma Asfari difensore dei diritti umani e 23 altri militanti erano stati condannati a pesanti pene da un tribunale militare per la loro partecipazione alle proteste nel campo di Gdeim Izik nel 2010 erano state basate sulle confessioni ottenute sotto torture a seguito di un processo iniquo.
Nel 2014 l’ACAT Francia ha presentato una denuncia per il caso di Naâma Asfari al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite. Il 12 dicembre 2016 il Comitato ha preso la decisione di condannare il Marocco per le torture, la detenzione basata su confessioni estorte di Naâma Asfari e per aver rifiutato di condurre un’inchiesta sulle accuse di tortura. Questa decisione di condanna dovrebbe applicarsi anche ai 13 coaccusati che hanno subito le stesse torture e le stesse condanne basate su confessioni estorte sotto tortura.
Il Sahara occidentale è considerato dalle Nazioni Unite territorio non autonomo. E’ occupato illegalmente dal Marocco dal 1975; il diritto internazionale umanitario fissa delle regole cogenti per il paese occupante: proibizione della tortura, della detenzione arbitraria, obbligo di rispettare i diritti della difesa, giudizio e detenzione dei sahraui nel territorio occupato. In violazione di queste norme gli accusati di Gdeim Izik sono stati giudicati e imprigionati nel territorio marocchino e nessuna inchiesta è stata avviata per le accuse di violazione del diritto internazionale umanitario da loro subite dopo il loro arresto. Claude Mangin Asfari, la moglie di Naâma Asfari, è andata a Casablanca ai primi di febbraio 2017 per visitare il marito incarcerato a Oukacha, ma le è stato proibito l’accesso in Marocco perché oggetto di un “divieto di soggiorno”: dopo una notte in aeroporto, è stata rimandata a Ginevra da dove era venuta.
Iran: Ahmadreza Djalali, condanna a morte politica
Ahmadreza Djalali è un medico di 45 anni residente in Svezia, docente e ricercatore in medicina dei disastri e assistenza umanitaria, che ha insegnato nelle università di Belgio, Italia e Svezia. Lavora nel campo della Medicina dei disastri dal 1999 e ha scritto decine di articoli accademici. Ha lasciato l’Iran nel 2009 per un dottorato di ricerca presso il Karolinska Institute in Svezia, poi presso l’Università degli studi del Piemonte Orientale e la Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio. Djalali è stato arrestato in Iran il 25-4-2016, dove si trovava per dei seminari. Detenuto nella prigione di Evin, a Teheran, rischia la pena di morte.
Il 31 gennaio 2017 Djalali è comparso davanti alla sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, senza il suo avvocato. Il presidente del tribunale lo ha informato che è accusato di “spionaggio” e che rischia la condanna a morte. Nel dicembre 2016, le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava” di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Al suo rifiuto, gli hanno minacciato come vendetta l’accusa di “atti ostili contro Dio” (moharebeh), che comporta la pena di morte.
In segno di protesta, alla fine del mese Djalali ha iniziato uno sciopero della fame che ne ha compromesso la salute: ha perso 20 chili di peso, ha avuto due collassi, la pressione sanguinea è diminuita e ha forti dolori ai reni. I suoi familiari non hanno avuto sue notizie per 10 giorni. Dopo una settimana di detenzione segreta, è stato trasferito alla prigione di Evin, dove è rimasto per sette mesi, tre dei quali in isolamento, senza assistenza legale. Durante questo periodo, è stato sottoposto a interrogatori intensi ed è stato costretto, sotto grande pressione emotiva e psicologica, a firmare delle dichiarazioni, i cui dettagli non sono noti. Ahmadreza Djalali ha raccontato che, quando è stato detenuto in isolamento, durante gli interrogatori è stato offeso e minacciato, tra le altre cose, anche di essere trasferito alla prigione di Raja’i Shahr a Karaj per essere detenuto in pessime condizioni insieme ad altri detenuti nel braccio della morte.