FEBBRAIO 2018: THAILANDIA-UZBEKISTAN
THAILANDIA: Italiano condannato a morte con un processo iniquo
Denis Cavatassi è stato condannato a morte nel processo di primo grado a Bangkok, Thailandia. Imprigionato con l’accusa di essere stato il mandante dell’omicidio del suo socio Luciano Butti nel marzo 20ll a Pukhet, dove entrambi avevano un’attività di ristorazione. Cavatassi dopo l’assassinio del socio si reca spontaneamente dalla polizia, sì mette a disposizione per collaborare, senza pensare di ritrovarsi sotto accusa. Libero su cauzione non ha voluto fuggire ed ha atteso il processo. Viene interrogato senza un traduttore, un avvocato e nemmeno un funzionario della nostra ambasciata. E finisce in arresto. Le indagini sono superficiali: non viene perquisita la sua abitazione, né il suo computer. La moglie non viene convocata e non vengono ascoltati i membri dello staff del ristorante. Il suo legale Alessandra Ballerini dice che le indagini sono state vaghe, senza riscontri e senza alcun testimone oculare.
Cavatassi ha detto: “Ho ancora davanti agli occhi e nelle narici le condizioni igieniche assolutamente indegne di questo luogo. Siamo duecento in una cella che può contenerne meno della rnetà. Se di notte mi giro su un fianco non ritrovo più lo spazio per rimettermi supino. Mi rendo conto solo adesso che il destino può riservare delle esperienze che vanno oltre ogni immaginazione” (da linkiesta.it).
L’On. Luigi Manconi ha organizzato una conferenza stampa in Senato sul caso di Cavatassi e ha presentato due interrogazioni al governo per accendere i riflettori su questa incredibile storia di ingiustizia, sull’iniquità del processo e sulle orribili condizioni di detenzione, tutte gravissime violazioni dei diritti umani basilari.
Convinti che la pena di morte sia una barbarie abbiamo deciso di rivolgerci al nostro Ministro degli Affari Esteri affinché. attraverso tutti i possibili canali, compreso quello della Ambasciata d’Italia a Bangkok, Denis Cavatassi trovi adeguato, sostegno nella sua vicenda giudiziaria e possa usufruire di un equo e giusto processo e, nel malaugurato caso di una conferma di condanna, questa non riguardi la pena capitale .
Il caso di Cavatassi è uno degli oltre 3.000 casi di italiani incarcerati fuori dell’Italia. Colpevoli o innocenti, spesso scontano la pena senza alcuna tutela dei diritti umani. Privati di beni di prima necessità, costretti a vivere in celle sporche e sovraffollate, non di rado vittime di malagiustizia e corruzione. Tutti protagonisti di storie dimenticate.
UZBEKISTAN: giornalista arrestato per motivi politici
Rischio di tortura e condanna a 20 anni di prigione per il giornalista Boboumourod Abdoullayev
Il 27 settembre 2017, il giornalista uzbeko Boboumourod Abdoullayev è stato arrestato a Tashkent con l’accusa di ” attentato alla sicurezza dello stato” e imprigionato in uno dei centri di detenzione più tristemente noti del paese dove la tortura è pratica corrente. Per due giorni la sua famiglia è rimasta priva di notizie, il 29 gli agenti di polizia hanno perquisito la sua abitazione prelevando documenti, libri e computer. Da quella data, una sola volta la moglie e l’ avvocato sono stati autorizzati a rendergli visita. Nel corso di un’udienza a porte chiuse, il tribunale di Tashkent lo ha accusato di violazione dell’art. 159 del codice penale ( attentato alla sicurezza dello stato) e ordinato la sua reclusione. Secondo la polizia, il giornalista era in stretto contatto con il capo dell’opposizione in esilio. Abdoullayev è un giornalista indipendente, commentatore sportivo e corrispondente di vari organi d’informazione indipendenti come Radio Free Europe e Radio Liberty. Inoltre, con lo pseudonimo di Ousman Khaknazar ha scritto diverse analisi politiche dove, secondo l’accusa, si riscontrerebbero incitazioni alla rivolta. Accusa respinta categoricamente dai suoi colleghi e che, se fosse provata, gli costerebbe una condanna a 20 anni di prigione.
Purtroppo, il diritto alla libertà d’espressione e di riunione pacifica è fortemente limitato in Usbekistan.
Il rischio che Abdoullayev sia sottoposto a tortura non è privo di fondamento: diverse ONG hanno documentato in maniera seria e credibile che i prigionieri vengono torturati nei centri di sicurezza nazionale (SSN), in particolare nei locali adibiti agli interrogatori, nelle celle, nei bagni oltre che nelle stanze specialmente previste per la tortura e attrezzate con pareti insonorizzate. La tortura è praticata al momento dell’arresto, del trasferimento a altro luogo di detenzione sia essa provvisoria o definitiva, per ottenere informazioni o semplicemente per costringere il torturato a dichiararsi colpevole dei crimini di cui è accusato. I tribunali spesso emettono condanne basate su queste confessioni, senza altri riscontri. I prigionieri politici e quelli sospettati di terrorismo sono particolarmente esposti al rischio di essere torturati.