MARZO 2019: IRAN-RUANDA

IRAN: Nasrin Sotoudeh condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate
L’avvocatessa, paladina dei diritti umani e Premio Sakharov 2012 del Parlamento europeo, è stata condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate per “collusione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo Stato, istigazione alla corruzione” e per “essere apparsa in pubblico senza hijab”, il velo islamico. Lo ha rivelato il marito Reza  Khandan dopo che aveva appreso la notizia durante una breve telefonata con la moglie. È di gran lunga la pena più severa per un difensore dei diritti umani pronunciata in Iran negli ultimi anni ed è chiaro l’intento di assestare un colpo mortale a tutti coloro che si battono per migliorare la condizione femminile e i diritti civili nel paese.
 
Sotoudeh, da anni in prima fila per difendere i diritti civili delle donne e non solo, è stata arrestata a giugno 2018 e incarcerata nella prigione di Evin a Teheran, dove successivamente è stato detenuto anche il marito per alcuni mesi e poi rilasciato.
In passato Sotoudeh era stata condannata a cinque anni di carcere in contumacia dal tribunale rivoluzionario di Teheran per spionaggio, condanna che si è aggiunta all’ultima portandola appunto a 38 anni con l’aggiunta umiliante e fisicamente molto dolorosa delle 148 frustate.
 
ACAT è intervenuta a favore di Sotoudeh a luglio 2018 e adesso vi chiediamo di intensificare il nostro e vostro sforzo per aggiungere la nostra voce a quella di altre organizzazioni per i diritti umani affinché si crei un vasto movimento di opinione che porti alla liberazione di Sotoudeh o, in alternativa, a una mitigazione di questa pena inumana è crudele.
Dobbiamo unire la nostra voce ai tanti appelli che partono da tutto il mondo: solo davanti a un forte pronunciamento dell’opinione mondiale la giustizia dell’Iran potrà modificare la propria sentenza.
È possibile firmare on-line l’analogo appello lanciato da Amnesty International
 
RUANDA: Condannato per motivi politici e dimenticato
Déogratias Mushayidi  militante non-violento per la pace e la democrazia in Ruanda di etnia Tutsi, ha perduto la sua famiglia nel genocidio del 1994, egli era allora il rappresentante in Svizzera del Fronte Patriottico Ruandese (FPR), la ribellione armata di cui Paul Kagamé –ora  presidente della Repubblica –era uno dei principali leader politici. Alla fine della guerra, Mushayidi  si unì al secretariato generale del FPR in Ruanda. Di fronte alle esecuzioni extra-giudiziarie commesse in totale impunità dal FPR,  decise dopo 6 mesi di lasciare il suo posto, e di intraprendere la carriera di giornalista e di criticare apertamente la deriva autoritaria del FPR. 
 
Minacciato, egli va in esilio in Belgio nel 2000 ottenendo lo stato di rifugiato; si attiva per riunire Hutus e Tutsis per un cambiamento politico e pacifico in Ruanda. Nel novembre 2008, fonda in Belgio, il partito Patto di Difesa del Popolo (PDP). L’anno dopo torna in Africa e tenta  di riunire  la diaspora ruandese. Nel marzo 2010 viene arrestato in Tanzania con un visto scaduto su un falso passaporto del Burundi. Transferito successivamente in Burundi poi in Ruanda è ormai un prigioniero dimenticato nelle prigioni del Ruanda dalla sua condanna all’ergastolo emessa dalla Alta Corte di Giustizia, il 17 settembre 2010, dopo un processo sbrigativo senza testimoni d’accusa, per « false dichiarazioni per ottenere un passaporto  burundese, propagazioni di voci  per incitare alla disobbedienza civile e reclutamento d’una armata per aggredire il potere costituito ». Il suo appello  nel febbraio 2012 è stato respinto, dalla Corte Suprema  che ha confermato la pena.
 
Da allora Mushayidi, senza famiglia in Ruanda (sua moglie e i suoi due figli sono in Canada), riceve poche visite, dimenticato dalla comunità internazionale e dalla società civile. Mentre l’oppositore Victoire Ingabire è stato liberato il 15 settembre 2018 (insieme  a 2.140 altri detenuti), Mushayidi  resta in prigione anche se non ha mai compiuto atti di violenza e ha sempre lavorato per una nazione ruandese unita nella pace. Chiediamo dunque la sua liberazione come gesto umanitario verso un uomo non violento che ha sempre cercato la pace
 
N.B. anche la lettera per l’ambasciata è in francese dato che la rappresentanza diplomatica del Ruanda per l’Italia si trova a Parigi.