LUGLIO 2019: IRAN-MESSICO

IRAN: Ricercatore condannato a morte, in gravi condizioni di salute, dopo anni di prigionia
Riprendiamo il caso di Ahmadreza Djalali, il medico iraniano specializzato in emergenze e disastri che ha lavorato in Italia e Svezia arrestato a Teheran durante un convegno tre anni fa e da allora detenuto nel carcere di Evin a Teheran. Accusato di essere al servizio delle intelligence dei paesi considerati ostili o nemici, il ricercatore nell’ottobre 2017  è stato condannato a morte per spionaggio durante un processo farsa in cui il diritto ad essere rappresentato da un legale di sua fiducia gli è stato ricusato e in assenza anche del legale assegnatogli d’ufficio. La sentenza è stata confermata dalla Corte Suprema anche se, fortunatamente, non è stata ancora eseguita.
Da allora si susseguono gli appelli delle associazioni per i diritti umani. In una lettera aperta in data 9 dicembre 2018, 121  premi Nobel hanno chiesto al leader supremo Ali Khamenei che Djalali sia trattato umanamente e possa ricevere le cure mediche, che il suo stato di salute gravemente deteriorato richiede, oltre che possa tornare a casa da sua moglie e dai suoi figli e continuare il suo lavoro accademico. In precedenza, Djalali aveva svolto il suo lavoro di ricercatore al prestigioso Karolinska Institute di Stoccolma per cinque anni dove era stato accettato per il suo eccellente curriculum. Aveva ottenuto insieme alla sua famiglia la cittadinanza svedese grazie alla legge che prevede tale possibilità per chi lavora legalmente per cinque anni nel paese scandinavo. Dal 2012 al 2015 aveva anche lavorato al Crimedim dell’Universita’ del Piemonte Orientale con sede a Novara dove si era fatto apprezzare dai colleghi per la grande professionalità e le doti umane del suo carattere. Tutto ciò è diventato motivo di grande sospetto per le autorità iraniane che non hanno esitato ad arrestarlo appena si è presentata l’occasione opportuna.
Adesso Djalali è gravemente malato, conseguenza del grave isolamento in cui è  tenuto e delle torture fisiche e psicologiche sofferte. La richiesta del medico carcerario che sia trasferito in infermeria per accertare le cause di una diminuzione inarrestabile dei globuli bianchi che fa temere una leucemia è stata respinta.
La moglie Vida Mehrannia si è rivolta alle nostre autorità politiche e a quelle accademiche perché vogliano intervenire in favore del marito finché si è ancora in tempo. Uniamo la nostra voce per sollecitare una rapida soluzione del caso auspicando che la risonanza che sta suscitando possa essere determinante.
Gli appelli precedenti in favore Djalali erano stati fatti a febbraio e novembre 2017.
MESSICO: Detenuti in sciopero della fame da oltre 100 giorni
Adrián Gómez Jiménez, Juan de la Cruz Ruíz, Abraham López Montejo, Germán López Montejo, detenuti a San Cristóbal de Las Casas, e Marcelino Ruíz Gómez, a Comitán de Domínguez, sono da 108 giorni in sciopero della fame.
Adrián, è stato condotto due volte all’ospedale d’urgenza,  lo stato di salute di Marcelino e Abraham è molto compromesso. I 5 detenuti hanno già perduto più del 10 % del loto peso, ma non ricevono nessuna cura adeguata e denunciano invece un accanimento da parte delle autorità penitenziarie.
Malgrado ciò i detenuti e altri 8 (Mariano Gómez López, Marcos Gómez López, Martín Gómez López, Mariano Pérez Velasco, Mario Díaz Rodríguez, Felipe Díaz Méndez, Juan Castellanos Gómez et Baldemar Gómez Hernández) non vogliono rinunciare al rispetto dei loro diritti. Dopo 15  o  20 anni di detenzione preventiva, e denunce di torture, essi chiedono la revisione delle procedure nei loro confronti e la libertà.
Dopo i precedenti appelli delle varie ACAT la procura specializzata per le questioni di tortura ha finalmente aperto un’inchiesta il 1° aprile di quest’anno.
Tuttavia le autorità locali che si erano impegnate ad occuparsi sulla questione in tre mesi non hanno fatto nulla.
Inoltre, i detenuti devono pagare a caro prezzo la messa a disposizione di una copia del loro dossier e alcuni non hanno le disponibilità necessarie.
 Le popolazioni autoctone sono più vulnerabili, secondo la Commissione nazionale dei diritti dell’uomo attualmente  6.776 uomini autoctoni  sono detenuti e 234 donne.
Oltre alla grande discriminazione sociale e alla marginalità economica, le comunità autoctone soffrono di una maggiore vulnerabilità per il mal funzionamento del sistema penale  messicano. Secondo il  rapporteur speciale sui diritti dei popoli autoctoni, gli indigeni arrestati e perseguiti penalmente sono vittime di violazioni circa il diritto d’accesso a processi e difesa equi, per la mancanza di interpreti, avvocati difensori e operatori di giustizia che parlino la loro lingua e conoscano la loro cultura.