Anche i cattolici si oppongono alla tortura
Pubblichiamo di seguito l’interessante contributo del prof. Alessandro Monti apparso su L’Osservatore Romano nella giornata del 10 marzo in occasione per ricordare l’atività ormai trewntennale di Acat Italia nella lotta contro la tortura e la pena di morte.
Il decano dei psicologi sociali nordamericani, Albert Bandura, 90 anni, in un recente saggio ricorda come il progressivo disimpegno morale che caratterizza la società contemporanea sia all’origine delle giustificazioni psicologiche per l’uso senza alcuna remora della tortura. Una deriva inaccettabile che punta a legittimarsi, oscillando tra il rifiuto di pronunciare la parola che la designa per negarne l’esistenza e la provocazione del noto penalista americano Alan Dershowitz che propone di regolare la tortura per renderla “trasparente e controllata”.
Contro l’affermarsi di questa tendenza aberrante si battono numerose ong. In Italia la timida attenzione mediatica alla lotta alla pena di morte e alla tortura si sofferma esclusivamente sulle ong laiche, ignorando quelle di ispirazione religiosa, meno appariscenti ma non meno presenti nell’attività di monitoraggio, informazione e coinvolgimento dell’opinione pubblica.
Merita allora ricordare come l’associazione non profit Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura (Acat), nata da una costola del Movimento rinascita cristiana, nonostante le sue esigue risorse, operi da oltre trent’anni praticando e incoraggiando l’impegno contro la tortura sul presupposto della sacralità della vita umana e dell’intangibilità del corpo. Una tensione morale che si esercita su due fronti. Il primo, quello dell’emergenza, con interventi settimanali di denuncia dei casi più gravi di tortura che avvengono nel mondo e di sostegno alle vittime, non solo attraverso lettere e petizioni alle autorità responsabili ma con incontri di preghiera e un’appassionata “controinformazione” pubblicata sul sito www.acatitalia.it e su un giornale on line, raccordandosi alle iniziative di altre ong e di singoli individui volenterosi.
Il secondo fronte d’intervento dell’Acat abbraccia una strategia di più lungo periodo. Si propone di sollecitare l’interesse conoscitivo delle giovani generazioni sui fenomeni di uso eccessivo della forza e di abuso di potere delle autorità. Si tratta dell’istituzione di un premio annuale alla migliore tesi di laurea su trattamenti inumani, tortura e pena di morte, ormai alla settima edizione grazie anche ai fondi dell’otto per mille della Chiesa valdese. L’intento di una laurea per fermare la tortura è sensibilizzare l’ambiente accademico e gli studenti universitari ad approfondire i casi di tortura, le loro motivazioni, i negativi effetti sui processi di sviluppo della democrazia politica e delle istituzioni pubbliche.
Promuovere gli studi universitari sulle ragioni di comportamenti che ripugnano alla coscienza, non è però fine a se stessa. L’obiettivo é quello di favorire in Italia la crescita di una mentalità pacifica e solidale, di un movimento d’opinione sempre più vasto contro questi fenomeni, in grado di rompere il muro di indifferenza.
Il premio Acat 2016 è stato attribuito alla tesi di laurea di Annunziata Vavolo della scuola di scienze politiche Cesare Alfieri dell’università di Firenze che ha affrontato un tema di grande attualità: «Il principio di non réfoulement e il divieto di tortura alla prova delle sfide attuali». Il principio di non respingimento di individui verso uno Stato ove vi sia il rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti degradanti è uno strumento cruciale per garantire il rispetto dei diritti dell’uomo. Nonostante l’assoluta inderogabilità del principio di non réfoulement affermata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, a partire dal settembre 2001 si registra infatti un progressivo attenuarsi dei relativi obblighi a carico degli Stati spesso motivato con la necessità di tutelare l’interesse alla sicurezza nazionale.
La tesi vincitrice è stata scelta tra le 20 provenienti da ben 14 sedi universitarie. È certo però che in questi ultimi mesi altri 20 studenti universitari (e i loro docenti relatori) si sono dedicati all’analisi delle questioni legate alla pena di morte, alla tortura e ai comportamenti inumani e degradanti compiuti su detenuti o su persone comunque private della libertà nell’ambito di strutture pubbliche che dovrebbero tutelarne l’intangibilità. Comportamenti ancora poco esplorati nei complessi meccanismi che li generano, nelle cause che continuano ad alimentarli e a giustificarli in molti paesi.
La conoscenza aggiornata di questi comportamenti è invece decisiva per apprestare appropriati strumenti di contrasto e di prevenzione che coinvolgano non solo le istituzioni pubbliche preposte, ma anche l’impegno di tutti i cittadini. Innanzitutto aiutando la classe politica a superare la riluttanza a prevedere il reato di tortura nel codice penale italiano. Riluttanza che può essere superata proprio dalla coralità di un movimento civile avvertito e determinato nel chiedere che il parlamento, dopo quasi trenta anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unire contro la tortura, provveda, senza ulteriori indugi, a introdurre un apposito reato (imprescrittibile) con funzioni repressive e al tempo stesso di deterrenza.
di Alessandro Monti