Dicembre 2018: Messico-Vietnam
MESSICO
Francisco de Jesús Espinosa Hidalgo, per il quale eravamo intervenuti più volte ed ancora nello scorso mese di aprile, è stato imprigionato e torturato a seguito di un arresto arbitrario. Finalmente dopo 3 anni è stato riconosciuto innocente e liberato il 21 settembre avendo il giudice riscontrato la totale assenza di prove a suo carico. Francisco, è un contadino indigeno Tsotsil impegnato nella difesa della proprietà collettiva e dell’agricoltura delle terre della sua comunità a Venustiano Carranza, nel centro dello Stato del Chiapas, contro progetti di sfruttamento del suolo. Egli ora vuole che i suoi torturatori e i loro complici vengano giudicati ed è necessario che gli vengano assicurate le cure mediche necessarie a ristabilire la sua salute dopo la lunga detenzione e le violenze subite: depressione, dolore ricorrente, diabete, perdita di memoria, disfunzione della prostata.
Come Francisco, i popoli indigeni sono emarginati in Messico. A causa della loro cultura, della loro identità e del loro stile di vita tradizionale, risultano più discriminati e criminalizzati rispetto al resto della popolazione. L’ONU stima che il 71,9 per cento della popolazione indigena vive in condizioni di povertà o di estrema povertà, rispetto al 40,6 per cento della popolazione a livello nazionale. Una minoranza di essi è ufficialmente registrata: 6,5% della popolazione. Eppure il 21,5% dei messicani si auto-identifica come indigeno.
A causa di questa esclusione sociale, le popolazioni indigene soffrono impunemente gli abusi e le intimidazioni della polizia: arresti arbitrari, controlli identificativi. Queste operazioni sono progettate per frenare le loro rivendicazioni e prevenire l’esercizio dei loro diritti. Queste vittime sono i colpevoli ideali. Nella stragrande maggioranza dei casi, sono arrestati senza un mandato e torturati fino alla firma di una confessione di colpa nei procedimenti penali che le autorità cercano di chiudere rapidamente. La loro difesa è spesso pasticciata da avvocati nominati a pagamento della carica, e in assenza di interpreti, mentre pochissimi capiscono lo spagnolo. I giudici rimangono indifferenti alle denunce di tortura e ordinano la loro condanna. In secondo luogo, a molti prigionieri aborigeni viene negato l’accesso a cure mediche in carcere.
Sosteniamo Francisco de Jesús Espinosa Hidalgo nella sua lotta per ottenere giustizia con la condanna dei suoi torturatori.
VIETNAM
Tran Thi Nga, attivista dei diritti umani impegnata contro la tratta degli esseri umani e l’esproprio della terra ai coloni, 41 anni e madre di due figli, condannata a nove anni di carcere e cinque di arresti domiciliari, è stata malmenata e minacciata di morte nella prigione dove sta scontando la pena inflittale il 25 luglio 2017. Arrestata durante una pacifica dimostrazione per la catastrofe ecologica di Formosa avvenuta nel 2016, è stata accusata di propaganda sovversiva contro lo stato e, dopo la sentenza è stata trasferita nella prigione di Gia Trung a più di 1300 km di distanza dalla sua famiglia. La sua domanda di appello è stata respinta a dicembre 2017.
In passato, Tran Thi Nga era stata fatta oggetto di minacce e di aggressione da parte di poliziotti in borghese, riportando diverse fratture agli arti.
Poco dopo il suo trasferimento a GiaTrung, le autorità carcerarie lo hanno accusato di disobbedienza e imposto delle sanzioni fortemente restrittive dei suoi diritti, di conseguenza le viene impedito di ricevere le visite dei suoi familiari e le viene concesso di comunicare telefonicamente con loro solo una volta al mese. Durante una delle poche telefonate al marito lo scorso agosto, Tran Thi Nga ha denunciato di essere stata malmenata e minacciata di morte da parte di alcune detenute e di essere costretta a condividere la cella con una donna nota per essere una confidente dei guardiani con i quali collabora anche nei maltrattamenti nei riguardi delle altre detenute.
La tattica di trasferire i prigionieri di opinione lontano dal loro ambiente familiare è usata molto spesso dalle autorità vietnamite per reprimere la libertà d’espressione e soprattutto per fiaccare la resistenza fisica e psicologica dei detenuti. È per questo che, oltre a chiedere che Tran Thi Nga sia rimessa in libertà, insistiamo nella nostra lettera affinché sia posta fine a questa pratica odiosa.
Il Vietnam ha firmato la Convenzione ONU contro la Tortura (CAT) e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, eed è pertanto tenuto a rispettare tali accordi.