Da Genova a Santa Maria Capua Vetere, il reato di tortura non basta più
Le impressionanti immagini e le nuove sconcertanti rivelazioni che hanno restituito al Paese il volto drammatico di un certo contesto carcerario ci dicono purtroppo molto dello stato di salute della nostra democrazia e non possono non richiamare alla mente la scuola Diaz, la caserma Bolzaneto, Genova 2001. Vent’anni fa.
Come alcuni commentatori ed esperti del settore stanno opportunamente sottolineando in questi giorni, non si tratta purtroppo di un caso isolato, di poche mele marce che vanno opportunamente punite, ma di un sistema che ha ormai rivelato in maniera inoppugnabile la sua inefficienza e anzi, il suo lato peggiore, a riprova di quanto l’articolo 27 della nostra Costituzione sia ampiamente disatteso.
Proprio per il malfunzionamento del suo sistema carcerario l’Italia è stata più volte bacchettata dalle istituzioni internazionali preposte alla tutela dei diritti umani.
Durante l’ultima sessione della UPR ( Revisione Periodica Universale) da parte della Commissione diritti umani dell’ONU, avvenuta per l’Italia nel 2019, come ACAT avevamo presentato il nostro consueto rapporto alternativo attraverso il quale ponevamo l’accento sulle criticità del sistema penale italiano, a partire dalla piaga del sovraffollamento, e chiedevamo che: si rimettesse mano alla riforma del sistema penale in particolare per quanto riguarda l’accesso a misure alternative alla detenzione, si lavorasse per il diritto all’affettività in carcere e per i percorsi di reinserimento, si mettesse fine alla vergogna dei bambini dietro le sbarre. Raccomandazioni in parte accettate dalla Commissione e rivolte al Governo italiano, soprattutto per quanto concerne le misure volte a ridurre la popolazione carceraria.
Più dure erano state le accuse indirizzate all’Italia nell’ultimo rapporto stilato dal CPT ( Comitato europeo per la prevenzione della tortura) e pubblicato a gennaio dello scorso anno: “Il rapporto illustra diversi casi di maltrattamenti fisici inflitti ai detenuti da parte del personale di polizia penitenziaria che consistevano in calci, pugni e colpi di manganello in luoghi non coperti da telecamere a circuito chiuso. Il Comitato ha potuto osservare nelle cartelle cliniche dei detenuti in questione descrizioni di lesioni corporali considerate compatibili con le accuse di maltrattamento.” Nel caso specifico si faceva riferimento al carcere di Viterbo.
E, volendo fare un ulteriore passo indietro, non possiamo certo dimenticare la condanna inflitta dalla CEDU all’Italia per il reato di tortura perpetrato ai danni di due detenuti ristretti presso il carcere di Asti. Era il 2017, la condanna arriva a 13 anni di distanza dai fatti, e segue quella comminata per le torture avvenute presso la caserma Bolzaneto durante il G8 di Genova 2001.
Dopo anni di battaglie civiche, rese ancora più urgenti proprio dai fatti di Genova, il reato di tortura è diventato parte del nostro ordinamento penale, ma i recenti accadimenti dimostrano che forse non è sufficiente a impedire che episodi di violenza si verifichino in maniera sistematica all’interno di certi luoghi. Serve dunque fare un passo ulteriore.
Occorre si arrivi a una complessiva assunzione di responsabilità che risalga la catena di comando fino ad arrivare ai vertici, quei vertici che sapevano e hanno dato il benestare (esplicito o tacito), oggi come vent’anni fa. Occorre che ci sia un radicale cambio di passo e vengano attuate quelle riforme necessarie ma ancora tabù, come i codici identificativi per gli appartenenti alle forze dell’ordine.
Ed è necessario che l’intero sistema penitenziario venga riformato in termini nuovamente democratici recuperando il meritorio lavoro svolto, qualche anno fa, dagli Stati generali dell’esecuzione penale e caduto nel dimenticatoio. E occorre farlo al più presto, non solo per la salvaguardia dei detenuti, ma anche di tutti quegli uomini e quelle donne che nel carcere lavorano onestamente e nel rispetto del ruolo loro assegnato.
Come ha dichiarato in questi giorni Glauco Giostra: “ Ora, se trascorso il momento della sacrosanta condanna non interverranno cambiamenti sostanziali, se gli istituti di pena continueranno a essere, salvo, come oggi, lodevolissime eccezioni, contenitori in cui rinchiudere soggetti socialmente infetti, l’agghiacciante attualità che stiamo commentando sarà anche l’attualità di domani. E limitarci ancora allo sdegno non basterà ad assolverci.”
Il ventennale di Genova, che arriva proprio in queste stesse settimane, serva dunque da monito e al contempo da spinta affinché davvero si possa dire: mai più!